Ad Haiti, uno spavento senza nome

Il 4 ottobre l’uragano Matthew ha colpito l’isola causando 546 morti, 128 dispersi e 439 feriti. «Come in quel 12 gennaio 2010 – scrive padre Gérard, missionario scalabriniano impegnato nella ricostruzione – ancora una volta Haiti non ha saputo proteggere i suoi figli»

Non avevo ancora finito di raccontare per la rivista Scalabriniani la ricostruzione di Haiti, distrutta dal devastante terremoto del 2010, quando il mio paese è stato colpito per la seconda volta. Il 4 ottobre l’uragano Matthew ha causato 546 morti, 128 dispersi e 439 feriti (secondo le cifre ufficiali). Come in quel 12 gennaio 2010, la natura si è scatenata contro di noi e ancora una volta Haiti non ha saputo proteggere i suoi figli. Come sempre una domanda sale a Dio: «Dove sei» «Dove eri quella notte?» «Perché esiste solo disastro nelle nostre vite e nei nostri destini?».

La fine del mondo

Ancora una volta le nostre città e i nostri villaggi sono in ginocchio: i ponti sono stati spazzati via, le case distrutte, i tetti strappati, gli alberi sradicati, i muri abbattuti, le auto ribaltate, i campi devastati, i raccolti persi. Tutto è stato devastato da una violenza senza pari. Tutto è stato portato via da venti che vanno a a più di duecento kilometri all’ora. Solo sgomento, per coloro che hanno vissuto per ore il passaggio dell’uragano. «Abbiamo pensato di vivere la fine del mondo», ha testimoniato mia madre. Rimangono solo i pianti e il grido delle nostre città; il dolore di coloro che sono lontani dai loro cari.

Trascorrere più di due giorni senza avere notizie dei tuoi; aspettare e aspettare una telefonata che non arriverà mai; scoprire dai social che la Chiesa dove sei stato battezzato e il villaggio che ti ha visto nascere è un territorio bombardato. Tutto questo è uno shock, uno spavento senza nome.

Disarmati e impotenti

Al di là delle enormi perdite in vite umane e materiali registrati, questo disastro ci ricorda la nostra irresponsabilità e la dura realtà della nostra estrema precarietà. Matthew ci ha fatto scoprire le nostre debolezze e le nostre bruttezze. Di fronte ai pericoli naturali, siamo disarmati. Incapaci di proteggere i nostri figli dalle furie dei venti. Impotenti di organizzare la risposta ai bisogni di coloro che sono nei guai. Gli eventi ci superano.

Come se sei anni non fossero trascorsi, in questo paese che non è il nostro. Non siamo riusciti a educare sui pericoli degli uragani. Non abbiamo saputo comunicare. Non siamo riusciti a organizzare le evacuazioni. Nulla dice che saremo in grado di portare assistenza. Sul campo le persone soffrono e soffriranno. Muoiono e moriranno. Il cielo diventa grigio, i bambini temono per la propria vita, perché sono abbandonati tutti a loro stessi.

Direzione Tijuana

Il nostro paese è indebolito, trascurato, ignorato. Le madri di famiglia si chiedono di che cosa sarà fatto il domani. I sei milioni di haitiani che vivono sotto la soglia di povertà (meno di due dollari al giorno), avranno più difficoltà a far bollire la pentola. Domani come sempre non avranno altre scelta che imboccare la strada dalla città brasiliana di Manaus per arrivare a Tijuana, in Messico, alla ricerca di una vita migliore, con la speranza di attraversare un giorno la frontiera californiana.

Un giorno saremo forse meglio preparati ad affrontare disastri come questo? Difficile crederlo, considerando che il nostro paese ha difficoltà a ripulire le strade, a combattere il colera; a garantire il funzionamento degli ospedali pubblici o la tutela della vita e dei beni. Il paese diventa sempre più vulnerabile dal punto di vista ecologico e geologico. Tuttavia, è incoraggiante vedere che queste persone e questi bambini, distrutti dalla miseria, mantengono ancora il loro sorriso. Le persone si difendono sole, nonostante i disagi e ritardi negli aiuti. La loro non è un’isola maledetta. Non c’è niente di maledetto in tutto questo. C’è la storia, semplicemente, con tutte le sue contraddizioni. Ma è una storia che deve essere trasformata, che va cambiata.

Padre Richard Gérard