Muri e accoglienza, l’ambiguità europea

Il recente afflusso di immigrati nel vecchio continente è il più grande spostamento umano di massa dopo la seconda guerra mondiale. Quattro aspetti meritano una particolare attenzione. La riflessione di padre Alfredo Gonçalves, vicario generale della congregazione scalabriniana

Una questione di sopravvivenza

In primo luogo, da parte di coloro che arrivano, c’è l’urgenza di una necessità che costringe le persone e le famiglie a cercare rifugio in altri paesi. I migranti fuggono in massa da guerre aperte e dichiarate (Siria, Iraq, Afghanistan…), o da tensioni e conflitti armati intestini di origine etnica, politica o religiosa (Nigeria, Libia, Sudan…). Ma fuggono anche da povertà e carenze croniche di ordine storico e strutturale, così come da catastrofi naturali (Bangladesh, Eritrea, Somalia, Etiopia…). Ciò significa che questa è, soprattutto, una questione di vita o di morte, di sopravvivenza.

Un posto al sole

Poi, dal punto di vista degli specialisti, sembra destinato al fallimento il tentativo di separare chiaramente rifugiati, profughi e migranti. Per i rifugiati e gli sfollati tornare al proprio paese d’origine significa, in generale, la persecuzione, la prigionia o addirittura la morte; i cosiddetti migranti socio-economici, invece, nella loro patria sono condannati alla povertà endemica, senza possibilità di futuro. Peggio ancora, vivono ogni giorno con una morte a contagocce e sempre a portata di mano. La disperata ricerca di un’uscita che tenga conto dei requisiti minimi per la protezione dei diritti e della dignità umana non si escludono reciprocamente. Tutti cercano un posto al sole.

L’ambiguità diffusa

In terzo luogo, dal punto di vista della popolazione del paese d’arrivo, in maggiore o minore misura vi è un sentimento misto di solidarietà e di rifiuto, d’accoglienza e pregiudizio: la paura dell’altro convive con l’obbligo morale di ospitarlo. I valori occidentali della cittadinanza e della convivenza plurale e pacifica contrastano con una fobia più o meno occulta, diffusa e dissimulata.

Lo stesso sentimento si riflette nell’ambiguità delle autorità del Parlamento europeo e nei governi dei rispettivi paesi. Mentre si moltiplicano convegni, incontri e promesse di distribuire migranti attraverso quota eque, si erigono muri di confine (tra Serbia e Ungheria) e si limita l’ingresso con una legislazione più severa (Ungheria, Inghilterra…). Abbondano, poi, i movimenti e i partiti di estrema destra, il cui discorso è in linea con il rifiuto a titolo definitivo o la selezione di profughi qualificati (Francia, Italia…).

Un senso di impotenza

Infine, all’interno di Chiese, ONG (organizzazioni non governative) ed entità legate ai diritti umani o istanze simili, traspare un senso amaro e doloroso di impotenza. Di fronte l’afflusso sempre più voluminoso e continuo di immigrati – tanto lungo la via del Mediterraneo quanto lungo la rotta dei Balcani – qualsiasi cosa si faccia essa rappresenterà solo una goccia d’acqua in un deserto arido. Il campo della mobilità umana è vasto, e le sue sfide sono tante e tali da far sembrare le forze sociali e umanitarie delle formiche insignificanti che cercano di portare un peso superiore alla propria forza.

Certo, dal punto di vista evangelico, si può dare un segno, una testimonianza, si può accendere una luce nelle ombre e nelle tenebre di tante ingiustizie e asimmetria sociali, economiche, politiche e culturali. Ma il senso di impotenza si intensifica di fronte ad alcune immagini scioccanti, come quel bambino morto sulla spiaggia, i cadaveri alla deriva tra le onde dell’oceano o il grande cammino dell’esodo da Budapest verso Vienna. La migrazione è un «segno dei tempi» – dicono i documenti della Chiesa – ma l’attuale spostamento, per le sue dimensioni, richiede un’azione più ampia, congiunta e programmata tra gli stati e la società civile.

Padre Alfredo J. Gonçalves