Tijuana: frontiera senza uscita
Sono migliaia i migranti bloccati nella città messicana. Arrivano da Brasile, Honduras, El Salvador, Guatemala… scappano da violenze, abusi, povertà…
Al confine ovest tra Stati Uniti e Messico, a nord dello stato della Baja (Bassa) California affacciata sull’Oceano Pacifico, sorge la città di Tijuana. Con quasi due milioni di abitanti, rappresenta un enorme, disordinato e caotico agglomerato urbano, a metà strada tra una grossa città degli Stati Uniti e una tipica e densa città del Sud del mondo.
Un muro di mille kilometri
È quasi banale parlare di contraddizioni, perché una città di frontiera ha la contraddizione nel suo DNA. Dal bilinguismo diffuso al lusso che convive con la miseria, dalle case in perfetto american style, che tanti film hollywoodiani ci hanno mostrato, alle baraccopoli simili a favelas brasiliane.
La ciudad de los pecadores, come la definiscono i messicani stessi, è la città del divertimento sfrenato, del ballo, dell’alcol a buon prezzo. Ma anche della disperazione e della speranza di poter passare del otro lado (gli Stati Uniti) nutrita da una miriade di invisibili: i migranti che provengono dal Centro America e i deportados, in molti senza documenti, dagli USA.
Tijuana si è fatta tristemente conoscere nel mondo per la sua barriera lunga più di mille kilometri. Una sorta di grande moderno muro di Berlino. Nel 1994 l’amministrazione di Bush senior decise che i due paesi dovevano essere divisi, attuò il noto programma Guardian che separò definitivamente Tijuana dalla città statunitense di San Diego. Le successive politiche, compresa quella dell’amministrazione Obama, ampliarono lo sbarramento fino a farlo diventare una frontiera quasi invalicabile, oltre che luogo di deportazione di massa e di violazione dei diritti umani.
Per sfuggire agli abusi
Per difendere questi stessi diritti, la società civile si è organizzata e, grazie soprattutto a diverse congregazioni religiose, sono sorte delle case di accoglienza. Fra quelle storiche c’è la Casa del Migrante dei missionari scalabriniani, vero e proprio punto di riferimento per migliaia di persone private del proprio capitale materiale e umano.
Qui ci si occupa di tutto: dai bisogni di prima necessità all’appoggio legale, dal supporto psicologico alla ricerca del lavoro. Decine di uomini da Honduras, El Salvador, Guatemala e diversi stati del Messico percorrono centinaia di kilometri in qualsiasi condizione e con qualsiasi mezzo per raggiungere il confine, non solo in cerca di una vita materiale migliore, ma anche per sfuggire ad abusi e violenze perpetrati da organizzazioni criminali potenti. Sono quelle legate ai cosiddetti signori della droga, per le quali la vita degli altri vale il prezzo del riscatto dei sequestri.
Una nuova emergenza
Da maggio scorso inoltre centinaia di persone in cerca di rifugio, provenienti in maggioranza da Haiti e da vari paesi africani oltre che intere famiglie di messicani, hanno cominciato ad ammassarsi alla frontiera. Sono gli effetti di un movimento migratorio iniziato dopo il 2010, esattamente dopo il disastroso e tragico terremoto che ha colpito Haiti.
Costretta a emigrare, un’intera generazione di giovani si è diretta in Brasile, allora stato dall’economia in crescita in cui il lavoro non mancava. L’attuale (e profonda) crisi politica e sociale attraversata dal paese ha spinto però i giovani haitiani a intraprendere una nuova rotta che, dal Perù, attraversa Ecuador, Colombia, Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras e Guatemala fino ad arrivare in Messico, dove con un permesso di ventuno giorni si raggiunge Tijuana. Verso il sogno americano.
Mentire per salvarsi
Un percorso migratorio identico per tutti, che non ha risparmiato pericoli, estorsioni e mazzette (una media di 2mila dollari) quasi a ogni frontiera. Difficile non sospettare che ci sia dietro un vero e proprio traffico di esseri umani.
Alla frontiera sud, poi, sono in molti a mentire sulla propria nazionalità. La maggior parte, per la lingua che li accomuna e convinti di avere così più chance per ottenere asilo politico, dichiarano di essere congolesi. E nonostante le gravissime conseguenze che un evento disastroso come un terremoto si porta dietro (specie se a subirle è un paese già poverissimo come Haiti) le opportunità di ottenere una protezione umanitaria, dopo circa un anno di valutazione e analisi della richiesta da parte del governo statunitense, sono pochissime.
I rifugiati ambientali, considerati dei migranti forzati al pari dei migranti economici, non godono dei benefici derivanti da obblighi giuridici ai quali gli stati devono adempiere. Una sorta di classificazione tra prima e seconda categoria di rifugiati che porta a dimenticare che in quanto uomini godiamo tutti di diritti umani.
Dal punto di vista delle istituzioni entrambi i governi, statunitense e messicano, abituati al flusso oramai normale di deportati e di migranti dal Centro America, non si sono resi conto dei cambiamenti degli equilibri sociali in atto. Le autorità hanno inizialmente sottostimato ciò che si stava verificando, dimostrando incertezza nell’intervento e nell’organizzazione.
Le aree più pericolose al mondo
Contemporaneamente all’arrivo in massa di giovani haitiani, si è assistito a un altro arrivo, quello di intere famiglie messicane sfollate, decise a chiedere asilo politico alla frontiera. Composte in maggioranza da donne, ragazzi e bambini queste famiglie si sono viste costrette a emigrare per sfuggire a un contesto di violenza generalizzata, privo di una rete sociale, istituzionale e familiare solida che li possa proteggere dai soprusi di un ambiente dominato dagli abusi e dal giogo delle pandillas legate al narcotraffico.
Ciò che colpisce, è la provenienza: la totalità delle famiglie arrivano dagli stati di Guerrero e Michoacan che, con il loro altissimo tasso di criminalità e il loro primato nel numero di omicidi, rientrano nella lista delle aree (non in guerra) più pericolose al mondo. Storie di sequestri, uccisioni, minacce e paura (specie per i ragazzi) di essere risucchiati nel vortice della manovalanza nera.
Tutte le frontiere europee
Autorità e società civile hanno dovuto così prendere atto del fatto che questo movimento migratorio, composto soprattutto da rifugiati, sta assumendo tutte le caratteristiche di un fenomeno di ampia portata, che non coinvolge più soltanto le frontiere europee ma quelle di tutti i paesi occidentali, che preferiscono impiegare le loro risorse economiche per rinforzare barriere e costruire muri a tutto vantaggio del border management, trasgredendo i più basilari diritti dell’uomo.
Antonella Panetta
Antonella Panetta si è occupata di integrazione e insegnamento dell’italiano per stranieri, ha lavorato come operatrice sociale in un centro di accoglienza per richiedenti asilo e ha svolto attività di comunicazione e raccolta fondi per due ong. Da marzo a settembre 2016 è stata in Messico come volontaria per ASCS Onlus nella Casa del Migrante a Tijuana. La struttura, che fa parte della Rete delle Case del Migrante, è diretta da padre Patrick Murphy, missionario scalabriniano che ha raccontato la crisi dei migranti in una serie di post intitolata Reflections from the Border, scritta per il Center for Migration Studies di New York.