Migranti: tra i più vulnerabili nella pandemia

La riflessione del missionario scalabriniano padre Alfredo Gonçalves

Secondo i dati il numero di morti a causa della pandemia di covid-19 negli Stati Uniti e nel Regno Unito è maggiore tra le minoranze etniche e gli immigrati. Gli esperti indicano varie ragioni.

Anzitutto, si tratta di parti della popolazione in una situazione estremamente precaria, sia in termini di lavoro che di alloggio, e per questo soggette a uno sfruttamento che le rende ancora più vulnerabili in questo tragico momento di contagio su larga scala. In un paese che non ha un sistema sanitario per proteggere i più poveri, i migranti sono i primi a subire le conseguenze più gravi.

Proprio tra questa popolazione di immigrati le aziende reclutano manodopera per i lavori più pesanti, pericolosi e mal pagati, in settori quali quello della pulizia, dei trasporti pubblici e del lavoro domestico. Condannati a questo tipo di mansione, i migranti hanno più probabilità di venire a contatto con il virus. La precarietà cronica in cui vivono aumenta per loro non solo il rischio di ammalarsi, ma anche di non resistere all’attacco del virus, che può rivelarsi letale. Più grande è la debolezza, maggiore è il rischio di morte.

Ancora una volta, il capro espiatorio

Negli Stati Uniti una parte significativa degli immigrati è priva di documenti, osteggiata dalla politica xenofoba del presidente Trump anche prima della tragedia del covid-19. Prima su di loro pesava il rischio del rimpatrio; ora, nell’occhio della pandemia, hanno paura a cercare le autorità temendone il pregiudizio: non vogliono tornare nel paese di origine ed essere separati dai propri figli. D’altra parte le restrizioni per la pandemia potrebbero essere estese. Alcuni migranti sono stati trovati morti. Il coronavirus finisce per spingere nella tomba coloro che si trovano già sul bordo dell’abisso.

In questa crisi sanitaria ancora una volta gli immigrati finiscono per assumere il ruolo di capro espiatorio. Secondo lo studioso francese René Girard questa espressione, capro espiatorio, indica un nemico comune, che deve essere identificato, combattuto ed eliminato, per garantire la coesione e l’ordine primitivo della comunità.

Tra coloro che fin dai tempi antichi hanno subito questa fatidica discriminazione, vi sono lebbrosi, pazzi, disoccupati, eretici, streghe, ebrei, comunisti… Oggi, con l’avanzata dell’estrema destra e il nazionalismo populista, l’etichetta viene applicata allo straniero.

Non è questa la normalità che vogliamo

Sulle spalle di migranti e rifugiati tende oggi a ricadere tutta la colpa dei disordini socio-politici, delle catastrofi naturali e perfino delle pandemie: sono in altre parole coloro che devono morire affinché la società possa trovare ordine e pace, a beneficio di coloro che godono del sistema socioeconomico e politico che accumula ricchezza, da un lato, ed esclusione sociale, da un’altro. È questo ciò che i media e il governo chiamano ritorno alla normalità, dopo la pandemia… Che normalità è questa?

La normalità di un’economia globalizzata che, seguendo il mito della produzione ad ogni costo e del consumo frenetico, estrae e sfrutta le risorse naturali fino allo sfinimento, devasta le foreste, desertifica il suolo e contamina l’aria e l’acqua, provoca un riscaldamento globale che aggrava le catastrofi “naturali” più gravi e produce milioni di “rifugiati climatici”. La normalità di un capitalismo che sfrutta il lavoro umano fino all’ultima goccia di sudore, lacrime e sangue, facendo sì che un immenso contingente di persone, sradicate, vaghino per il mondo alla ricerca di briciole. No, non è certo questa normalità che vogliamo.

Padre Alfredo J. Gonçalves, cs